dal Groom Lake a Pavia per una missione segretissimA
di Gabriele Tacchi
Ero un giovane aeromodellista, quando, agli inizi degli anni ‘80 comparvero sulle riviste di settore le prime riproduzioni a ventola intubata in grado di volare più o meno decentemente: l’unica alternativa al frastornante quanto incontrollabile pulsogetto, installato per non avere sul muso di un caccia un’elica improbabile quanto orripilante. Eravamo agli albori della propulsione a getto, e di micro turbine ancora non si parlava, ad eccezione di qualche ipotesi più teorica che pratica. Le linee pulite e filanti dei jet erano attraenti (quasi) quanto quelle di una bella ragazza e la realizzazione di uno di questi modelli era un sogno cui aspirare: cari i modelli, care le ventole, cari e rognosi da gestire i motori, cari i carrelli retrattili, in un’epoca in cui erano care pure le prolunghe dei servi, ed il sottoscritto, che pur viveva in una famiglia agiata ma con un forte senso della misura, si trovava a dover gestire l’hobby tramandato dal padre con la sua paghetta settimanale.
Uno dei miei sogni di allora vedeva come oggetto un aereo in particolare, che ritenevo, a torto, poco più che un aliante a reazione, un tranquillo volatore che avrebbe consentito un approccio senza troppi patemi e menate. Un aereo comunque inusuale e poco, per non dire per nulla, diffuso nelle manifestazioni modellistiche, reso ancora più interessante dal programma top secret al quale apparteneva, dall’odore di Area 51 e dall’epilogo di un’intricata vicenda di spionaggio che ne aveva rivelato al mondo l’esistenza appena una ventina d’anni prima.
PROGETTO AQUATONE
Il Lockheed U2 “Dragon Lady” venne progettato come aereo spia d’alta quota in piena guerra fredda, allo scopo di ficcare il naso di là dalla cortina di ferro e fornire informazioni all’intelligence sulla reale consistenza delle installazioni militari sovietiche, necessarie a dimensionare correttamente le forze armate statunitensi, evitando errori di valutazione che si sarebbero rivelati fatali in caso di conflitto. Padre del progetto fu “un certo” Kelly Jhonson (nella foto con Gary Powers), un ingegnere aeronautico non proprio alle prime armi: aveva nel suo curriculum molti dei velivoli che avevano e avrebbero fatto la storia dell’aeronautica: il P38, il Constellation, l’F80, l’F104, poi, successivamente, avrebbe creato l’SR71. Praticamente un guru dell’aria.
L’idea, sviluppata da Kelly Johnson nei primi anni ’50 si basava su di una modifica al suo nuovissimo caccia, l’ XF104, ancora in sviluppo finale, al quale furono sostanzialmente allungate le ali, dando vita al CL-282: il progetto venne inizialmente scartato dalla USAF, ma successivamente destò l’attenzione della CIA, e venne ritenuto migliore rispetto ai concorrenti Bell X-16, Fairchild M-195 e Martin RB-57D. Il concetto di un volo ad altissima quota, lento, parco nei consumi e quindi garante di una lunga autonomia, al riparo dalle artiglierie nemiche piacque alla commissione dell’agenzia di spionaggio deputata a scegliere che forma dovesse avere l’aereo più impiccione del mondo e, con l’imprimatur di Eisenhower sul cartiglio del progetto, la Lockheed si portò a casa la commessa per 20 velivoli interamente pagati dalla CIA, che mise anche all’opera un gruppo di astronomi ed esperti di fotografia aerea per realizzare le strabilianti apparecchiature fotografiche da installare a bordo con la loro dotazione di qualche chilometro di pellicola.
Per le prove dei velivoli del progetto Aquatone, classificato top secret, poi ribattezzato Utility 2 (U-2), Johnson necessitava ovviamente di un’area che garantisse la necessaria segretezza: la base di Edwards, luogo abituale dei test della Lockheed, era ormai troppo conosciuta. Si mise personalmente alla guida della sua auto, accompagnato dal miglior pilota collaudatore della sua azienda e cominciò a vagare per gli stati del sud ovest, fino a quando si ritrovò in Nevada, seguendo il consiglio di un uomo della CIA, su di una vecchia pista abbandonata, utilizzata durante la seconda guerra mondiale per l’addestramento dei piloti militari e successivamente inglobata in un poligono di 26000 km2 per i test nucleari, il Nevada Test Site 51.
Quel luogo, noto come Watertown vicino al Groom Lake, divenne la sua base operativa e fu successivamente battezzato Area 51 ed utilizzato, con buona pace per gli ufologi complottisti, per lo sviluppo di molti altri progetti segreti, tra i quali quelli che hanno prodotto l’SR-71 Blackbird, l’F-117 e il recente quanto sconosciuto programma Aurora.
Trovata l’idea, gli uomini, il posto e i quattrini, il progetto ebbe un rapido sviluppo, apportando non poche modifiche a quanto precedentemente ipotizzato, soprattutto relativamente alla posizione del piano di quota, alle dimensioni della fusoliera e nel motore, che venne appositamente progettato per garantire una spinta ad alta quota, ove la resistenza aerodinamica è molto bassa, pari al 7% di quella a livello del mare e consentendo di effettuare il primo volo il 4 agosto del 1955. In realtà sembra che il primo decollo avvenne per errore: durante una prova di rullaggio a 70 nodi, il pilota si trovò inaspettatamente in aria “come un angelo con la nostalgia di casa”, complice il bassissimo carico alare. Rimesso a terra il velivolo, non senza fatica, il collaudatore incassò un poco elegante invito da parte del progettista Jhonson, fuori di sé per l’accaduto, al quale replicò con un “you too”, anche tu. La leggenda vuole che il nome U-2, che in americano si pronuncia più o meno nello stesso modo, derivi da quella risposta. Ma è per l’appunto una leggenda.
Il velivolo si rivelò tutt’altro che facile da pilotare: rognoso in decollo per la visibilità del pilota assai ridotta, rognoso in atterraggio per lo stesso motivo e a causa della sua considerevole apertura alare, che lo rendeva poco maneggevole, molto soggetto alle raffiche di vento e molto lungo in finale, rognoso a 73.000 piedi, condizione che imponeva il mantenimento della velocità di volo all’interno di un intervallo di appena dieci nodi. Tra l’altro, proprio a causa di questo ridotto campo di velocità di volo, in combinazione con l’elevata apertura alare, una virata troppo stretta avrebbe portato l’ala interna al di sotto della velocità di stallo e quella esterna in condizioni di “mach buffet”, ossia di separazione del fluido dal profilo. Un paio di piloti ci rimisero la pelle durante i test, ma il loro sacrificio consentì il proseguimento del programma e l’ottenimento di risultati molto confortanti, al punto da decidere l’inizio dei voli operativi di spionaggio, condotti da piloti della Lockheed (azienda privata), su velivoli della Lockheed (pagati dalla CIA); fatto di non poco conto, visto che gli USA poterono formalmente dichiarare, senza mentire, che nessun aereo militare statunitense stava violando lo spazio aereo sovietico.
Le informazioni raccolte durante i quaranta voli di spionaggio oltre cortina furono da subito ritenute importantissime, e servirono a calmare i calori dei vertici militari statunitensi, ridimensionando la consistenza delle forze nemiche fino ad allora solo ipotizzate, anche sulla base di quanto lasciato volutamente trapelare. Furono sorvolati, a partire dal 1956, Varsavia, Praga, la Germania dell’Est, la Romania, la Bulgaria, l’Ungheria e la Cecoslovacchia. Successivamente, dal ’58 in poi, l’unione Sovietica, seguendo la rotta Berlino Est, Polonia, Bielorussia, Minsk, Leningrado, Estonia, Lettonia e Lituania, per spingersi in occasione di altri voli sopra Mosca, in missioni della durata di 8/9 ore.
Nemmeno gli inglesi i francesi e gli israeliani furono al riparo dai voli stratosferici, grazie ai quali si scoprì che l’entità delle forniture di Mirage a Israele era differente da quanto dichiarato.
Nel frattempo i sovietici si misero al lavoro per trovare un modo per tracciare i voli dell’U2 ed abbatterli, essendo gli americani ben consapevoli dei progressi fatti con i missili SAM che fotografarono schierati e in attesa del loro obbiettivo. In circostanze ancora non chiare, il velivolo del tenente Gary Powers, nel corso di quello che doveva essere l’ultimo volo in territorio sovietico, venne abbattuto; pare in maniera del tutto fortuita, investito da una fortissima turbolenza generata da un passaggio ravvicinato di un Sukhoi Su9 disarmato, mentre con i numerosi missili Sam lanciati contro Powers abbatterono per sbaglio un Mig che non se l’era squagliata in tempo, sta di fatto che il pilota si lanciò col paracadute senza azionare ,non riuscendoci, o forse per timore di perdere la vita, il congegno di auto distruzione (nella foto l’U2 di Power abbattuto). I russi dichiararono in pompa magna di averlo abbattuto con un missile terra-aria, ma se ciò avvenne fu comunque per pura fortuna e con un “colpo di striscio”, diversamente Powers non sarebbe sopravvissuto.
Atterrò sano e salvo e venne catturato dai sovietici, era il primo maggio del 1960, e il pandemonio che si sollevò a seguito del recupero dei rottami dell’U2 e alla cattura di Powers fu di proporzioni bibliche. Dopo il processo per spionaggio e ventuno mesi di prigionia venne scambiato presso il ponte di Glienicke a Potsdam con il colonnello del KGB Rudolf Abel, che era in mano agli americani.
Il successivo abbattimento sopra Cuba di un altro U2 nel ’62, sancì di fatto la fine dei voli di spionaggio con questo velivolo, aprendo la strada all’entrata in servizio dell’SR-71 Blackbird, che con i suoi 3.540 km/h di velocità era un bersaglio di fatto impossibile da colpire. L’U2 tuttavia non scomparve dalla circolazione, anzi, il suo sviluppo continuò con modifiche via via effettuate, cambiando parecchio fisionomia (esteticamente in peggio, secondo chi scrive) e consentendo missioni fino a 18 ore. Venne prodotto fino al 1987 ed utilizzato anche per altri scopi, non solo di spionaggio; va detto che la NACA/NASA condusse in parallelo ai voli spia anche numerosi studi sui raggi cosmici, le jet stream e la meteorologia, ed il velivolo viene tuttora utilizzato come piattaforma di alta quota per la strumentazione di ricerca. Diede un contributo seppur marginale durante le guerre in Corea e in Vietnam, nonostante la disponibilità dei satelliti spia, mentre durante la prima guerra del golfo, due Dragon Lady dislocati in Arabia Saudita furono essenziali per la ricognizione, soprattutto in presenza del denso fumo nero sviluppato dagli incendi volutamente appiccati dagli iracheni ai pozzi petroliferi. Fu utilizzato anche in Afganistan e la legge che avrebbe dovuto radiarlo entro il 2012 non venne firmata, non essendo disponibili valide soluzioni alternative.
IL MODELLO
La storia di questo velivolo, l’alone di mistero che ha sempre circondato il luogo in cui fu sviluppato, l’epopea dello spionaggio americano/sovietico, in un periodo in cui fare la spia creava nell’immaginario collettivo più l’immagine di James Bond che quella di un hacker nerd dei giorni nostri, ha contribuito non poco a rendere molto interessante ai miei occhi questo modello, e l’attenzione nei suoi confronti emergeva in modo periodico. Arrivati ai giorni nostri, non c’erano più scuse: disponibilità di ogni mezzo tecnologico per procedere alla realizzazione e documentazione, si trattava di definire le dimensioni del modello, la motorizzazione e la tipologia di costruzione. Ovviamente, avendo come amico fraterno uno dei migliori costruttori di aeromodelli in circolazione, ovvero Angelo Montagna (nella foto con l’U2 in costruzione), lo coinvolsi da subito. L’idea gli piacque, ed uno dei motivi fu che di modelli di U2, in giro, se ne erano visti pochissimi, quasi nessuno: un ulteriore e indispensabile stimolo ad imbarcarsi in questa nuova avventura.
Recuperai il disegno di un U2 a ventola per motore a scoppio e ci lavorammo sopra, ridimensionandolo dopo aver scelto come motorizzazione un gruppo ventola brushless Hobby King, che sulla carta prometteva una spinta statica di 60 N con una batteria di 10 celle. La scala venne definita avendo cura di ricavare gli spazi necessari per i carrelli retrattili, che si sarebbero dovuti chiudere a ridosso dei condotti di aspirazione e di scarico del propulsore ed all’interno della fusoliera. Si arrivò ad un’apertura alare di 3,4 m. Furono effettuate parecchie modifiche al disegno di partenza, vuoi per correggere alcune difformità rispetto al trittico dell’U2, vuoi per integrare con l’esperienza di una vita i dettagli che Angelo non riteneva né pratici né funzionali. Difficile che Angelo esegua un progetto senza metterci del suo, senza arricchirlo e migliorarlo sfruttando i trucchi e i segreti (che in realtà condivide molto volentieri con tutti) appresi nel corso di una gavetta che non ha mai fine. Emersero anche non poche incongruenze nella tavola acquistata, sta di fatto che del disegno originale rimase giusto l’impostazione di base.
La novità, per Angelo, abituato alla costruzione di modelli decisamente insoliti e complessi ma azionati da eliche, fu la costruzione dei condotti dell’aria. Ci ragionammo su insieme, dopo aver acquisito da internet una serie di informazioni e consigli su come contenere le perdite di carico ed eliminare il rischio di cavitazione della ventola, e rubammo qualche centimetro sul diametro dello scarico, onde evitare di accelerare troppo il flusso d’aria in uscita. Era il punto cruciale per la buona riuscita del progetto, e l’obbiettivo da raggiungere era la massima pulizia aerodinamica dei passaggi dell’aria. Le telefonate tra Angelo e me divennero ancora più frequenti di quello che già sono normalmente, e ad ogni visita al suo laboratorio a Sairano i progressi nella costruzione apparivano ben evidenti e rapidi. La realizzazione delle prese d’aria, col loro condotto a Y costituirono il collo di bottiglia più critico da superare. Vennero inserite all’interno della struttura in legno, a costruzione tradizionale in ordinate, correnti e listelli di copertura, dopo essere state stampate in fibra di vetro, su un modello a perdere in polistirolo, e raccordate al condotto di aspirazione in compensato di betulla da 0,8 mm. Il risultato sembrò da subito eccellente, e la pulizia dei condotti mi rese particolarmente soddisfatto e fiducioso, nonostante tutti i dubbi e lo scetticismo sul gruppo ventola cinese, che non avevo ancora provato.
Il lavoro proseguì a ritmo serrato. Per l’ala si scelse il profilo Eppler 207, ampiamente collaudato su altri modelli, che Angelo ed io ritenevamo molto adatto all’U2, garantendo l’elevata efficienza che un aereo elettrico deve avere per non sprecare energia. La baionetta venne realizzata in un pezzo unico con l’ordinata centrale, un componente cruciale per la struttura dell’U2: doveva reggere le sollecitazioni date dalle richiamate durante il volo e nello stesso tempo consentire il passaggio del flusso d’aria aspirato dalla ventola. Si scelse di realizzare un sandwich di compensato multistrato di betulla e fibra di carbonio, incollando sotto pressione una serie di strati alternati. Il risultato fu una baionetta a sezione rettangolare dalla resistenza confortante. Il cedimento di tale componente avrebbe causato la distruzione del modello. L’ala fu realizzata con costruzione tradizionale in centine e ricopertura in balsa da 2 mm, ricavando gli ampi flap necessari a rallentare la corsa dell’aereo durante l’atterraggio. Optai per l’installazione di carrelli alari retrattili elettrici, benché l’U2 vero fosse dotato di carrelli a perdere, che venivano lasciati sulla pista al momento del decollo: troppo rischioso farlo sul modello, a causa di possibili distacchi precoci o viceversa ritardati e quindi fuori pista. Il carrello principale, invece, fu realizzato utilizzando la meccanica Eurokit Professional Line Maxi con rotazione di 120° per la coppia di ruote anteriori che decisi, a differenza dell’aereo vero, di non rendere sterzante, ed una meccanica Eurokit Air Classic Piccolo per il ruotino posteriore orientabile, con schema ad azione singola comandato da valvola Alewings. Il sistema di retrazione così realizzato consente tre configurazioni: carrelli centrali ed alari aperti, per il decollo, tutti i carrelli chiusi, per il volo, carrelli centrali aperti ed alari chiusi per l’atterraggio. La scelta di mantenere chiusi i carrelli alari all’atterraggio non è solo dettata dal desiderio di riprodurre il comportamento del vero U2, ma dal timore di sollecitare le ali e creare momenti di imbardata durante il contatto col terreno. La funzione di appoggio dell’ala viene assolta a modello quasi fermo dai pattini di estremità, esattamente come nell’aereo vero. Durante la costruzione vennero creati tutti i vani per ospitare i vari componenti: il gruppo propulsore venne installato in corrispondenza della parte posteriore della centina alare di attacco, col motore più o meno allineato al bordo di uscita dell’ala, all’interno di un alloggiamento molto ampio apribile sia per la manutenzione e il controllo sia per inserire le viti di fissaggio delle ali; il regolatore YEP HV-180 da 180 A, 200 A di picco, nell’intercapedine presente tra la fusoliera e il tubo di espulsione dell’aria, realizzando uno spillamento di aria dal condotto per il suo raffreddamento. I mini servi digitali da 6 kg/cm Graupner distribuiti in corrispondenza delle parti mobili, i due servi da 12 kg/cm dei flap sempre con lo stesso criterio, così quello dedicato ad azionare lo sterzo della ruota di coda. Furono inserite diverse decine di metri di cavo per servocomando e i conduttori di potenza. Per i quattro pacchi batterie ciascuno da tre celle da 6400 mAh furono resi disponibili due alloggiamenti, uno all’interno del muso ed uno tra le centine di attacco dell’ala, in modo da poter modificare la posizione del baricentro semplicemente spostando le masse più considerevoli a bordo del modello, affinando il tutto grazie ad un’opportuna collocazione dei due pacchi batteria destinati ad alimentare attraverso un ESC-EVO da 12 A di Alewings l’elettronica di bordo. Optai per utilizzare due celle in più di quanto richiesto dal gruppo ventola, dodici in totale, per avere quattro pacchi batteria uguali tra loro, per compensare le cadute di tensione nei collegamenti un po’ più lunghi del solito e per disporre di uno spunto di potenza maggiore, da utilizzare con molta parsimonia e per pochi secondi, visto che la corrente assorbita era salita di parecchio, arrivando a punte di 180 A. Venne il giorno della prima accensione del motore: fusoliera costruttivamente finita ma ancora a legno, gruppo propulsivo installato, regolatore mantenuto all’esterno. Ci piazzammo sul tavolo presente nel giardino di Angelo. Realizzate le connessioni di regolatore e batterie, Angelo agguantò la fusoliera, e cominciai a far girare la ventola. Mi accorsi della spinta che dava dalla faccia di Angelo, al quale quasi scappò di mano il modello, dal polverone sollevato e dalla corsa della figlia e della moglie di Angelo a raccogliere la biancheria stesa in giardino, che stava per prendere un’incipriata piuttosto consistente. Fummo decisamente sorpresi dall’efficacia del propulsore, dal tremendo risucchio in prossimità delle prese d’aria, che aspiravano la mano avvicinandola al bordo e dalla violenza del getto di scarico: la spinta non mancava, si poteva considerare definitiva la motorizzazione scelta.
Si passò alla finitura, eseguita applicando un rivestimento in Oratex come fondo ed un velo di vernice bicomponente secondo la livrea scelta. A tal proposito decidemmo da subito di rinunciare a riprodurre la versione operativa dell’U2, in quanto il nero era troppo lugubre, non ottimale per l’identificazione in volo e soggetto a surriscaldamento in presenza di belle giornate. In soli due mesi Angelo aveva realizzato in modo eccellente, come suo solito, un modello nuovo ed impegnativo, pieno di nodi da sciogliere e difficoltà strutturali non da poco. La palla passò a me.
Mi piacque molto l’esemplare reale con matricola 66701, che era stato in forza all’Air Force Test Center, con la sua tipica colorazione argento-arancio nera, e fui fortunatissimo, scoprendo che la ditta statunitense Drawdecal (http://www.drawdecal.com/large-scale-flyable-u-2-by-gabriele-tacchi/) produceva, nell’ambito di un immenso catalogo, un foglio di decalcomanie ad acqua per trasformare il modello statico commerciale del’U2 in scala 1/72 e 1/48 proprio nella versione che avevo individuato. Mi bastò una mail a Greg per chiedere di realizzarmi un foglio di decalcomanie nella scala del mio modello per risolvere semplicemente il problema delle finiture. Accettò con entusiasmo, e dopo pochissimo ricevetti un plico: le decalcomanie erano bellissime, e una volta applicate e protette con una vernice bicomponente trasparente, davano un tocco notevole al modello, che difficilmente sarei riuscito ad ottenere, in quanto la documentazione in mio possesso non era sufficientemente completa per riprodurre i dettagli di stemmi e loghi.
Optai per installare la mia radio Taranis dotata di doppia ricevente e telemetria in grado di rilevare le tensioni di ogni singola cella del pacco batteria, generando l’allarme sul valore più basso, la corrente erogata dalle batterie, l’altezza e la velocità verticale del modello. Sono stato uno dei primi in Italia ad acquistare la Taranis, devo dire con tutti i dubbi e le diffidenze del caso. Mi piaceva l’idea del firmware Open Source e mi entusiasmava la totale libertà di programmazione che questa radio prometteva. Abituato a radio tradizionali e di marchi blasonati, con le quali mi sono sempre trovato benissimo, prendere in mano un plasticone mi creava numerosi turbamenti (mi auguro che FrSky esca in futuro con un prodotto meccanicamente superiore, e pare che la strada sia questa), ma la potenza infinita del software, un po’ostico per chi è legato agli schemi di altri sistemi, mi piacque molto e cominciai ad usarla, senza mai un problema, su modelli da battaglia, fino ad installarla sull’U2 quasi per scommessa.
Per la programmazione sfruttai numerose opzioni che Open Tx mette a disposizione e ritenni indispensabile la registrazione nel file di log dei dati ricevuti dalla telemetria, per analizzare il primo volo sia dal punto di vista della messa a punto del modello, sia per effettuare un’ottimizzazione dal punto di vista energetico, considerata la potenza assorbita dal motore e l’energia disponibile dalle batterie. Installai due riceventi X8R in configurazione D16, ovvero la prima destinata ai primi otto canali, la seconda per i canali dal nove al 16, con i servi collegati in modo da garantire in caso di avaria di una ricevente, di mantenere in funzione almeno un alettone e mezzo timone di profondità, numerando tutte le prolunghe con le apposite targhette per l’identificazione del cablaggio dei quadri elettrici La messa a punto richiese non poco tempo, e la programmazione della radio venne via via affinata ed arricchita con nuove impostazioni. Uno dei problemi che volli affrontare era quello della modifica dell’assetto del modello a flap estesi. Ipotizzai un momento cabrante, come avevo sperimentato nella maggior parte dei modelli da me utilizzati, e preparai un mixer a picchiare. Restava da stabilire la corretta percentuale di miscelazione, parametro che decisi di impostare direttamente in volo tramite uno dei due potenziometri laterali. Introdussi anche tutti gli avvisi vocali, sia di allarme sia di stato: al superamento di determinate soglie, vengono letti ogni 10 secondi dalla voce sintetica i valori di tensione delle celle e corrente assorbita, lettura che può avvenire anche azionando l’interruttore a rilascio automatico. All’apertura e chiusura di flap e carrelli viene emesso l’avviso vocale di flap o carrelli estesi o rientrati. Queste funzioni consentono di mantenere sotto controllo i parametri e capire quale sia ad esempio l’autonomia residua delle batterie e quanto si stia caricando l’impianto elettrico di potenza, onde evitare sorprese. Dopo mesi di lavoro, pensieri, elucubrazioni, arrivò l’inverno, e ci fermammo, in attesa della bella stagione per il collaudo, ma non solo: non so se capita anche ad altri, ma quando mi imbarco in un modello di rilievo arriva un momento di stasi, di stallo mentale, che mi blocca. Fino a quando, come dice Angelo, nel giro di qualche giorno “maturo”. Maturo l’idea che il modello è fatto per stare in aria e non appeso a prender polvere da qualche parte. Meglio un ferito o un morto alla prima missione che un pusillanime esposto al pubblico ludibrio di un gancio ficcato nel soffitto di un laboratorio o di un garage. E così fu. Grazie all’amico Andrea Mariani, pilota istruttore, ebbi la disponibilità, in un giorno di chiusura, della pista dell’aeroporto di Voghera-Rivanazzano Terme, 1000 m di asfalto pronti ad ospitare il collaudo del Dragon Lady.
Comunicai la data ai miei compagni di giochi del Gruppo Modellistico Belgioioso, che attendevano ormai da troppo tempo il collaudo, e il giorno 13 giugno 2016 ci trovammo sulla pista. I supporters erano numerosi e non mancava mio figlio Alessandro, anche lui vittima del virus aeromodellistico come lo ero stato io, mio padre, ovvero il paziente zero del ceppo virale e untore di famiglia, Angelo, Roberto Soffiantini nostro presidente, che insieme a Paolo Fiocchi ha realizzato le foto di questa cronaca, e tanti altri amici. Di eventi come questo ne ho vissuti tanti, ma a ruoli invertiti con Angelo, io aiutante e lui pilota: quel giorno, da un lato era pure lui teso, dall’altro felice che qualcuno potesse sperimentare quello che lui stesso aveva provato tantissime volte, ovvero l’agitazione pre collaudo; e ridacchiava sotto i baffi… Io in realtà ero più che altro in uno stato di tranche e mi muovevo secondo schemi programmati, consapevole comunque della presenza dell’Angelo custode, al quale non sfuggiva nulla, sempre pronto a mettere la parola giusta al posto giusto.
Montato il modello, eseguita la prova radio, caricata l’aria compressa per i carrelli retrattili, piccola accensione del motore per verificare la telemetria, ci portammo a centro pista. Due foto (finché il modello era intero), gufata tremenda del presidente -“inserisco lo scatto rapido, così se si schianta abbiamo la sequenza di foto”-, registrazione telemetrica attivata, accensione del motore e via! L’U2 accelera con grande progressione con un sibilo da turbina, di pari passo con la posizione dello stick del gas che gestisco con parsimonia, e, con grandissimo realismo, dopo una trentina di metri, stacca le ruote, con una rampa decisamente buona ed una leggerezza tale da far dimenticare i suoi 10 kg di massa. Non è necessario trimmare durante la salita, il modello è pressoché perfetto. Riduco subito il motore, e constato che la potenza disponibile è decisamente abbondante. Noto una reazione troppo nervosa al comando dell’elevatore nonostante un esponenziale del 50% sul comando, segno che il Dragon Lady è leggermente cabrato staticamente. Chiudo i carrelli e comincio la virata.
In aria è spettacolare, realistico, bello, veloce e si lascia pilotare bene. Provo ad estrarre i flap e… sorpresa: mette giù il muso, nonostante il mixer per la correzione dell’assetto fosse ancora a zero. Inutile attivarlo, era programmato per correggere una tendenza a cabrare. Dopo circa quattro minuti decido di scendere senza flap.
Imposto il circuito di avvicinamento e mi accorgo in finale di essere troppo alto. Errore di valutazione dettato anche dagli enormi spazi in cui mi trovavo a pilotare in assenza di riferimenti noti. Opto comunque per continuare, tanto la pista è lunga, e cerco di far perdere quota e velocità al modello, che mi passa di fianco a circa tre metri, con Angelo che mi esorta a fargli perdere velocità. L’efficienza è elevatissima, linea filante, assenza di un’elica frenante col motore al minimo, massa consistente: non si ferma più. Finalmente, quando ormai faccio fatica a vederlo e a capire quando e quanto richiamare per il contatto, tocca terra un po’ pesantemente con qualche lieve danno al supporto del carrello. Sospiro di sollievo, nonostante il brutto avvicinamento il modello è giù ed è a posto. Mi rendo conto che la tensione ti porta a isolarti dagli altri e a non sentire quello che ti dicono, a fare di testa tua e a non attuare misure che di solito sono naturali, tipo riattaccare e impostare nuovamente l’atterraggio. Poco male. È andato praticamente tutto bene. Brucia di più l’aver fatto un atterraggio lungo che il leggerissimo danno incassato.
Una volta a casa, scaricato il file di log della telemetria, ho potuto appurare quanto segue:
- L’assorbimento del motore è stato alto solo nei primissimi istanti del decollo, per 8 secondi. Ipotizzo intorno ai 180 A, come misurati a terra, visto che il trasduttore della telemetria arriva a 150 A. Durante il volo l’assorbimento medio è stato di soli 30 – 35 A, fatto salvo alcuni picchi con punte istantanee a 110 A per risolvere alcuni assetti che destavano preoccupazione;
- La velocità verticale è stata variabile durante tutto il volo, segno di una leggera instabilità dovuta al baricentro troppo arretrato. La punta di velocità verticale è stata di 8 m/s raggiunta tre volte;
- La tensione di cella è scesa durante lo spunto iniziale fino a 3,4 V, segno che nonostante le batterie siano dichiarate 40 C continui, la loro resistenza interna non è poi così trascurabile. Durante il volo, la tensione di cella è poi tornata su valori dell’ordine dei 3,9 V per poi trovarmi con la cella più bassa a 3,77 V a fine volo, dopo circa 5 minuti.
L’analisi dei dati acquisiti mi consente di fare le seguenti considerazioni:
- Il modello è leggermente cabrato, occorre avanzare un poco le masse;
- L’efficienza dell’U2 è decisamente alta, rimane in volo con un filo di motore. Occorre ricordare però che nonostante 35 A siano una corrente bassa, abbiamo sempre 12 celle, il che vuol dire che al regolatore la potenza necessaria durante il volo è compresa tra i 1.000 e i 1.700 W. Non ho mai fatto misure dell’efficienza del regolatore, tantomeno del motore, e nemmeno delle perdite nelle connessioni, ma potrei sbilanciarmi a dire che la potenza all’albero in tali condizione può essere stimata tra i 1.200 e i 1.350 W a fronte di 1700 W erogati dalle batterie. Durante lo spunto iniziale, le batterie arrivano ad erogare 7.000 W di potenza, che non è affatto poco;
- I flap sono indispensabili per un avvicinamento in spazi non così ampi, per smaltire l’elevata energia cinetica e potenziale che un modello del genere accumula;
- Il Dragon Lady, una volta messo a punto e definita una strategia di volo mirata alla massimizzazione dell’efficienza, consentirà voli dell’ordine dei 6-7 minuti, ovvero sufficientemente lunghi per poter apprezzare l’U2.
Siamo solo al primo passo del collaudo del Dragon Lady, ma posso ritenermi più che soddisfatto, in quanto tutti i maggiori dubbi sono svaniti: esuberante la spinta, parchi i consumi in volo, buona di conseguenza l’autonomia. Buono anche il comportamento in volo, nonostante una differenza di corda alare tra radice ed estremità decisamente elevata. La svergolatura in negativo di 0,8° mette al riparo dalle brutte sorprese a bassa velocità.
Anche Angelo è rimasto parecchio soddisfatto: per aver realizzato per l’ennesima volta un modello eccellente, mettendoci tutta la sua infinita abilità e competenza; ma, lo conosco bene, soprattutto per aver concretizzato un sogno, per tanto tempo rimasto nel cassetto, di un amico al quale è molto legato.
Costruttore/proprietà | Lockheed | Angelo Montagna/Gabriele Tacchi |
Anno di collaudo | 1955 | 2016 |
Propulsore | P&W J57 | Motore brushless e ventola da 110 mm |
Spinta motore [N] | 84500 | 60 |
Apertura alare [m] | 31,39 | 3,40 |
Lunghezza | 19,13 | 2,02 |
Massa al decollo [kg] | 18.733 | 10,4 |
Scala | 1:9,2 |
Gabriele Tacchi
articolo pubblicato su Modellismo n°143 settembre/ottobre 2016